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DOSSIER “First Sale Rule”

Applicazione della First Sale Rule alle Importazioni Italiane negli USA

La First Sale Rule (“regola della prima vendita”) è una strategia doganale che consente di ridurre il valore imponibile dei beni importati negli USA, calcolando i dazi sul prezzo pagato nella prima transazione anziché sull’ultimo prezzo di vendita al momento dell’importazione. In pratica, in presenza di una catena di vendite internazionali, l’importatore statunitense può dichiarare come valore doganale il prezzo originario pagato dal primo acquirente (ad es. l’intermediario estero) al produttore, se vengono soddisfatti determinati requisiti di legge. Ciò permette di abbassare la base imponibile su cui si calcolano i dazi ad valorem, con un potenziale risparmio sui dazi doganali proporzionale al ricarico del intermediario.

Negli Stati Uniti questa regola è in vigore da oltre 30 anni ed è stata confermata da vari precedenti giurisprudenziali (es. caso Nissho Iwai). Nel 2008, quando l’agenzia doganale USA (CBP) tentò di eliminarla, un intervento legislativo del Congresso ne ha ribadito la validità mantenendola disponibile per gli importatori (Food, Conservation and Energy Act 2008). Da allora è però obbligatorio per l’importatore dichiarare l’uso della First Sale al momento dell’ingresso della merce in dogana, in modo da permettere alle autorità controlli più mirati. Nonostante i chiari vantaggi, l’adozione della First Sale Rule richiede rigorosa due diligence e collaborazione lungo la filiera, motivo per cui la sua diffusione è ancora limitata: si stima che nel 2023 solo il 4% del valore delle importazioni USA sia stato valorizzato con il metodo della prima vendita (coinvolgendo circa il 10% degli importatori). Tuttavia, in alcuni settori chiave – in primis moda e calzature – questa pratica è ormai un importante strumento di ottimizzazione dei costi doganali, e sta guadagnando attenzione anche in altri comparti vista la crescente pressione competitiva e tariffaria.

Di seguito verrà fornita un’analisi approfondita dell’applicazione concreta della First Sale Rule in quattro settori di eccellenza del Made in Italy (moda, agroalimentare, arredo, cosmetica), con dettaglio di benefici potenziali (risparmi daziari), casi pratici, procedure/documentazione richieste dalla CBP, nonché rischi e criticità specifiche. Ogni sezione include riferimenti normativi aggiornati, linee guida operative ed esempi utili per le aziende italiane esportatrici interessate ad adottare questa strategia per entrare o rafforzarsi nel mercato USA.

Settore Moda e Abbigliamento

Il settore moda, abbigliamento e calzature è storicamente il maggior beneficiario della First Sale Rule. Ciò è dovuto ai dazi doganali relativamente elevati che gli Stati Uniti applicano su molti prodotti tessili e calzaturieri, uniti alla filiera spesso multi-stadio di questo comparto. Basti pensare che calzature, filati, tessuti e abbigliamento in genere sopportano tariffe d’ingresso molto alte rispetto ad altri beni Ad esempio, un capo di abbigliamento confezionato in Asia e rivenduto tramite un intermediario europeo può subire dazi USA ben superiori al 15% del suo valore. In alcuni casi gli oneri superano il 20-30% ad valorem (come per certi capi in fibre sintetiche) e per talune calzature possono persino avvicinarsi o eccedere il 30% (in funzione del materiale e del valore unitario). Questo significa che anche un moderato ricarico commerciale lungo la catena di fornitura genera margini di risparmio rilevanti se si adotta la First Sale.

Applicazione pratica: nella moda è comune la struttura a più livelli: ad esempio un brand italiano può far produrre i capi a un laboratorio terzista (in Italia o all’estero), acquistare dal fornitore a un certo prezzo, e poi rivendere a un distributore o al proprio importatore negli USA con un markup. Applicando la First Sale, l’importatore americano (spesso il distributore USA del brand) dichiara in dogana il prezzo “first sale” pagato dal brand al produttore originario, invece del prezzo più alto pagato dal distributore al brand. In tal modo i dazi si calcolano sul valore di fabbrica. Ad esempio, supponiamo che un abito uomo in poliestere Made in Italy sia prodotto da un terzista a un costo di 70 € e poi venduto dal marchio italiano al suo importatore USA a 100 €. Con un’aliquota doganale del 27,3% (tariffa reale per giacche uomo in fibre sintetiche), senza First Sale il dazio sarebbe 27,30 € per pezzo, mentre valorizzando la prima vendita (70 €) il dazio scende a 19,11 €, con un risparmio di 8,19 € per unità (circa il 30% in meno di dazio). Questo semplice calcolo evidenzia come, su ampi volumi, la First Sale possa tradursi in decine o centinaia di migliaia di euro di dazi risparmiati. In media, per capi di abbigliamento soggetti a dazio 12-16% e con ricarichi intermedi del 20-30%, l’uso della First Sale genera un taglio del costo finale intorno al 2-5%. Ancora più marcati i benefici per le calzature, dove i dazi MFN spesso oscillano tra il 8% e il 20% a seconda della tipologia (pelli, tessili, sportivo, etc.), e in cui i margini distributivi tendono ad essere alti: non a caso, calzature e abbigliamento sono le categorie dove si realizzano i maggiori risparmi da First Sale. Studi ufficiali hanno confermato che il comparto tessile-abbigliamento-calzature è quello a più alta adozione della First Sale Rule, proprio in virtù delle tariffe elevate: in un’analisi del USITC risultava che solo in questo settore coesistevano una percentuale di utilizzo sopra la media e dazi medi di molto superiori alla media

Esempi e casi studio: molte grandi aziende globali della moda utilizzano da anni questo meccanismo per ridurre il costo d’importazione negli USA. Ad esempio, diversi retailer americani di abbigliamento hanno implementato programmi “first sale” risparmiando fino al 20% dei dazi annuali dovuti, pari a centinaia di migliaia di dollari. Per i brand italiani del lusso, la First Sale può risultare meno comune – spesso producono internamente e hanno margini elevati, riducendo l’incentivo – ma diventa assai preziosa per marchi premium o fast fashion che producono fuori dall’Italia. Un caso pratico è quello di aziende italiane che producono in Cina o nel Far East e poi importano negli USA: queste imprese hanno visto crescere i dazi con i dazi punitivi della trade war USA-Cina, e hanno trovato nella First Sale una “ancora di salvezza” per mitigare l’impatto. Ad esempio, un’azienda italiana di abbigliamento sportivo con stabilimenti in Asia ha potuto ridurre la base daziaria non solo sul dazio normale (~12%) ma anche sul dazio addizionale del 25% (Section 301) applicato ai prodotti cinesi, ottenendo un forte sollievo complessivo. In generale, qualsiasi filiera della moda Made in Italy che includa un intermediario (sedi logistiche in Europa, trading company, buying office, ecc.) può candidarsi: uno studio USITC ha rilevato che quasi 46% degli importatori che usano la First Sale rientrano nella categoria abbigliamento/tessile/pelletteria, segno della rilevanza per questo settore.

Procedure e documentazione (CBP): per avvalersi della First Sale, l’Importer of Record USA (l’importatore ufficiale) deve seguire una procedura accurata e conservare documenti probatori. Innanzitutto, va indicata in sede di entry summary l’opzione “First Sale” come richiesto dalla normativa (tramite apposita dichiarazione elettronica al CBP). Questo adempimento – introdotto dal 2008 – segnala a CBP che il valore dichiarato è basato su una vendita anteriore all’ultima. Inoltre, l’operazione deve soddisfare tre condizioni chiave stabilite da prassi e sentenze doganali:

  • Vendita effettiva (bona fide sale): il passaggio di merce tra produttore iniziale e intermediario deve costituire una reale vendita con trasferimento di proprietà, non una mera transazione contabile fittizia.
  • Transazione a condizioni di mercato: produttore e intermediario devono essere indipendenti e non legati (o, se parti correlate, la vendita deve svolgersi a valori normali di mercato). In sostanza il prezzo “first sale” deve risultare frutto di normali dinamiche commerciali (arm’s length).
  • Destinazione agli USA sin dal primo passaggio: fin dal momento della prima vendita, i beni devono essere designati per l’esportazione verso gli Stati Uniti
    . Ciò può essere provato ad esempio dal fatto che la merce viaggia direttamente dal produttore al paese di importazione finale, oppure che reca caratteristiche/etichette specifiche richieste per il mercato USA sin dall’origine.

Per dimostrare il rispetto di tali requisiti, e soprattutto per supportare il valore della prima vendita in caso di verifica, è fondamentale predisporre e conservare un insieme di documenti dettagliati relativi a tutti i passaggi della transazione. In particolare, CBP potrà richiedere (in fase di sdoganamento o successivamente in audit) documentazione come:

  • Contratti di vendita o ordini d’acquisto tra produttore e intermediario, e tra intermediario e acquirente USA, con termini e condizioni;
  • Fatture commerciali emesse in ciascuna transazione della catena (dal produttore all’intermediario, e dall’intermediario all’importatore USA);
  • Prove di pagamento (es. lettere di credito, bonifici) che attestino i corrispettivi pagati ai vari livelli;
  • Documenti di spedizione (polizze di carico, documenti di trasporto) e certificati di origine, per tracciare il movimento della merce;
  • Eventuali istruzioni di produzione o specifiche fornite dal buyer iniziale al produttore, nonché elementi che mostrino adattamenti per il mercato USA (disegni, etichette con marchi o indicazioni in inglese, codici a barre, etc.);
  • Prove di conformità del prodotto alle normative USA sin dall’origine (ad es. etichette tessili con paese d’origine e composizione in inglese, etichette di cura, etc., obbligatorie per abbigliamento).

Nel settore moda questo significa, ad esempio, raccogliere tutti i contratti con i fornitori esteri, le fatture di acquisto dei capi dal produttore (in genere localizzato in Asia/EU) e di rivendita alla società USA, le distinte di imballaggio, e mostrare che già in fabbrica i capi riportavano il Made in Italy o altro marchio richiesto e magari taglie/etichette in lingua inglese se destinati agli States. L’adempimento documentale può essere oneroso, ma è imprescindibile: solo così la dogana americana riconoscerà il valore “first sale”. Fortunatamente molte case di moda hanno un controllo filiera ben strutturato e possono integrare questi requisiti nei propri flussi logistico-amministrativi con l’ausilio dei broker doganali.

Rischi, criticità e limiti (moda): nonostante i vantaggi, l’uso della First Sale Rule presenta sfide pratiche. Nel fashion business il primo ostacolo è spesso la riluttanza degli attori a condividere informazioni sensibili: convincere i fornitori e gli intermediari a rivelare i propri costi e margini al cliente importatore (o viceversa) può essere difficile. Questo richiede costruire un rapporto di fiducia e talora accordi di riservatezza robusti. Inoltre, la complessità amministrativa cresce: per ogni collezione/stagione potrebbe essere necessario gestire centinaia di SKU e relative documentazioni separate, il che comporta investire risorse interne o in consulenti doganali specializzati. Bisogna poi tenere presente che la CBP esamina con attenzione queste operazioni: se la struttura non è perfettamente conforme ai criteri (ad es. vendite non realmente “a prezzo di mercato” oppure merce non esplicitamente destinata agli USA), l’Agenzia può disconoscere la First Sale reclamando i dazi non pagati e applicando sanzioni. Un recente caso (febbraio 2023) ha visto una società americana multata per 1,3 milioni di dollari per aver applicato impropriamente la First Sale con prezzi fittizi: in quel caso l’importatore istruiva i fornitori su che valori dichiarare, senza un vero libero gioco di mercato, alterando dunque le basi della prima vendita. Questo episodio dimostra che forzare artificiosamente la procedura è pericoloso. Nel settore moda occorre anche fare attenzione a normative collaterali: ad esempio l’origine preferenziale (se si cerca di far passare un capo come “Made in Italy” quando in realtà è prodotto altrove, si entra in ambito frodi di etichettatura), oppure requisiti come il FTC labeling(per prodotti in lana, le etichette devono rispettare il Wool Products Labeling Act, e tali informazioni vanno anche in fattura) – tutti aspetti che vanno coordinati con la strategia First Sale per evitare contraddizioni. Infine, va valutato il rapporto costi/benefici: per aziende con volumi ridotti o margini di intermediazione esigui, il risparmio potrebbe non giustificare gli oneri organizzativi; al contrario, chi importa grandi quantità di abbigliamento tassato al 15% può ottenere vantaggi competitivi significativi (prezzi finali più bassi o margini maggiori) giustificando l’investimento.

In sintesi, la First Sale Rule nel settore moda è altamente consigliabile per aziende con supply chain internazionale complessa e dazi gravosi – tipicamente chi produce fuori dall’Italia e importa negli USA tramite distributori. I risparmi medi sui dazi in questo comparto vanno da un minimo di ~5% fino a punte del 20-30% in caso di dazi e ricarichi molto alti. I casi di successo includono sia grandi retailer USA di fast fashion sia produttori italiani del comparto calzature e sportswear con fabbriche delocalizzate. Con un’adeguata consulenza doganale e un sistema di gestione documentale integrato, le case di moda italiane possono sfruttare la First Sale per mantenere prezzi competitivi sul mercato americano senza intaccare la qualità percepita del Made in Italy.

Settore Agroalimentare

L’industria agroalimentare italiana – comprendente alimenti, bevande e prodotti agricoli – presenta caratteristiche differenti. I dazi USA sui prodotti alimentari tendono ad essere più moderati rispetto all’abbigliamento, con una media che si attesta intorno al 5-10% ad valorem. Molti generi alimentari base entrano addirittura esenti (ad es. caffè, tè, spezie) o con tariffe specifiche molto basse (es. uva passa $0,018/kg)

, mentre altri, soprattutto le specialità tipiche italiane, scontano dazi percentuali non trascurabili: pasta secca ~6,4%, aceto balsamico ~5%, acqua minerale ~$.08/litro (circa 2-3%), cioccolato ~4,3% + $0,4/kg, etc. Formaggi e latticini possono avere dazi ad valorem attorno al 10-15% (se dentro quota tariffaria) oltre a contingenti quantitativi, mentre vini e liquori sono tassati in base al tenore alcolico con aliquote specifiche (es. vino fermo ~$0,36 per litro, spumante ~$0,67/L). In generale, il range è ampio, ma pochi prodotti agroalimentari raggiungono aliquote doganali elevate come nel tessile. Fanno eccezione alcuni beni “protetti” dall’agricoltura USA: ad esempio il tabacco lavorato e alcuni derivati del latte possono superare il 20-30% o avere dazi combinati valore/peso molto onerosi; oppure le carni trasformate, soggette anche a ispezioni USDA. Inoltre, in tempi recenti, dispute commerciali hanno portato all’adozione di dazi punitivi: emblematico il caso dei dazi aggiuntivi del 25% imposti nel 2019 su diversi prodotti alimentari europei (tra cui formaggi DOP come Parmigiano Reggiano, Pecorino, alcuni salumi e liquori) nel contesto della disputa Boeing/Airbus. Queste tariffe straordinarie, sebbene sospese dal 2021, hanno reso ancor più interessante per gli importatori trovare modi di ridurre la base imponibile.

Applicazione concreta della First Sale: nel settore alimentare l’applicabilità della regola dipende molto dal modello distributivo. Molti produttori alimentari italiani esportano direttamente tramite importatori/distributori USA, senza passaggi intermedi ulteriori: ad esempio un pastificio di Gragnano vende tramite un importatore americano specializzato in prodotti italiani. In tali casi non vi è una “vendita multipla” precedente all’import – c’è un solo passaggio (produttore → importatore USA) – quindi non si può applicare la First Sale (il valore all’import è già quello di prima mano). Tuttavia, esistono scenari frequenti in cui si inserisce un intermediario: ad esempio:

  • Un consorzio export o trader italiano raggruppa prodotti di più piccoli produttori (olio, pasta, conserve, vini, ecc.) e li rivende come lotto unico a un buyer statunitense. La vendita produttore→trader e quella trader→importatore USA configurano un caso di multi-tier transaction.
  • Un grande acquirente USA (es. catena GDO) preferisce acquistare franco fabbrica da produttori italiani tramite una propria centrale di acquisto europea. In pratica la catena crea una società in Europa che compra i prodotti alimentari dalle aziende italiane e poi rivende a se stessa (filiale USA) per l’importazione.
  • Alcune aziende italiane di bevande (es. vino, liquori) vendono a importatori USA attraverso agenti o broker internazionali che acquistano il prodotto e lo rivendono aggiungendo una commissione.

In tutte queste situazioni, se si riesce a dimostrare che la vendita iniziale (es. produttore italiano → trader europeo) era effettuata per l’esportazione negli USA, la First Sale diventa applicabile. Significa che l’importatore americano potrà dichiarare il valore pagato al produttore italiano, anziché il prezzo più alto pagato all’intermediario.

Facciamo un esempio pratico: un caseificio italiano vende a un distributore europeo una partita di formaggio pecorino a 8 €/kg, e il distributore la rivende all’importatore USA a 10 €/kg. Il dazio USA (supponiamo 15% ad valorem per quel tipo di formaggio entro quota) ammonterebbe a 1,50 € al kg sul valore di 10 €. Applicando la First Sale, il valore imponibile scende a 8 € e il dazio a 1,20 €/kg, con un risparmio di 0,30 € al kg (pari al 20% in meno di dazio). Su volumi importanti (es. un container da 20.000 kg) ciò equivale a 6.000 € di risparmio per spedizione. Anche se i dazi alimentari sono mediamente più bassi, il potenziale di saving in valore assoluto può essere rilevante dati gli alti volumi e fatturati tipici dell’export agroalimentare (si pensi al vino: anche un dazio del 6 cent/L su milioni di litri esportati può generare migliaia di euro di differenza). Inoltre, la First Sale può aiutare a compensare in parte costi extra come spese di trasporto refrigerato, assicurazioni, etc., abbassando il costo sdoganato (landed cost) unitario.

Casi ed esempi: uno dei settori agroalimentari dove la First Sale è risultata più utilizzata è quello di frutta secca e conserve di frutta. Secondo dati CBP, comparti come “fruit and nuts” mostrano una quota significativa di importazioni sotto First Sale, pur avendo tariffe mediamente elevate.

. Ciò avviene perché spesso il commercio di frutta secca/polveri/prodotti agricoli avviene tramite broker internazionali: ad es. un grande broker acquista nocciole italiane e turche, le miscela o reimpacchetta e vende ai buyer USA; se impostato correttamente, l’importatore USA può dichiarare il prezzo pagato dal broker ai produttori originari. Un altro esempio può essere l’olio d’oliva: se un grossista europeo compra olio sfuso da frantoi italiani a 3 €/L e lo rivende imbottigliato al cliente USA a 5 €/L, il dazio (che per l’olio d’oliva vergine fortunatamente è 0%, ma supponiamo fosse 5%) passerebbe da 0,25 €/L a 0,15 €/L con First Sale. Ancora, nel settore vinicolo, immaginando un vino con dazio 6,3 cent/L: un intermediario internazionale acquista vino da diverse cantine italiane a 1,5 €/bottiglia e rivende negli USA a 2 €/bottiglia; il dazio per cassa (12 bottiglie ~9 L) scenderebbe da $0.567 a $0.378 circa, non enorme ma su migliaia di casse può accumularsi un vantaggio. In pratica la First Sale trova impiego quando c’è un anello distributivo extra-Italia: consorzi export, trader globali di commodity alimentari, hub logistici esteri utilizzati per raggruppare spedizioni destinate agli USA.

Procedure e documentazione (agroalimentare): i requisiti di base da soddisfare verso CBP sono gli stessi descritti per la moda (bona fide sale, arm’s length, destinazione USA), così come la necessità di fornire fatture, contratti e prove di pagamento di ogni passaggio. Nel settore food & beverage, tuttavia, ci sono ulteriori aspetti documentali e normativi da considerare, legati alla natura dei prodotti:

  • Innanzitutto, tutti i prodotti alimentari importati negli USA sono soggetti ai controlli della Food and Drug Administration (FDA). L’importatore deve garantire il rispetto di requisiti come la registrazione dello stabilimento estero presso FDA, il preavviso di importazione (Prior Notice) e, per gli alimenti, l’adesione al programma FSVP (Foreign Supplier Verification Program) che impone di conoscere e verificare i fornitori esteri. L’uso della First Sale non esime da questi obblighi – anzi li rende complementari: l’importatore che prepara il dossier First Sale avrà già raccolto informazioni sul produttore effettivo (primo venditore), il che si sposa con l’esigenza FSVP di disporre dei dati del produttore reale dell’alimento. In dogana, oltre alle fatture, saranno quindi spesso richiesti documenti come certificati sanitari, di origine (es. DOP/IGP), certificazioni USDA (per carni, latticini) ecc., tutti intestati al produttore originario. È importante che questi documenti siano coerenti con lo schema a due livelli: ad esempio, un certificato sanitario per formaggi deve riportare il caseificio produttore (venditore primo), e la fattura commerciale di quel caseificio verso l’intermediario. Ciò fornisce un’ulteriore prova che la merce era destinata all’export e identifica chiaramente l’origine.
  • Un elemento probatorio tipico per “destinazione USA” nell’agroalimentare è l’etichettatura conforme: se già il produttore appone etichette nutrizionali e ingredienti in inglese secondo gli standard FDA, o etichette con indicazioni obbligatorie USA (ad es. Surgeon General warning per gli alcolici, indicazioni di importatore/imbottigliatore in inglese per vini), questo è un forte indicatore che il lotto era fin dall’inizio inteso per il mercato statunitense.
  • Dal punto di vista procedurale, l’importatore USA dovrà dichiarare il valore di prima vendita e potrebbe essere soggetto a controlli sia di CBP che di FDA/USDA. Occorre quindi preparare un fascicolo completo da esibire in caso di esame intensivo. Per i prodotti alimentari ciò può significare esibire, oltre alle fatture primo e secondo livello, anche risultati di analisi, certificati sanitari, liste ingredienti, ecc., per soddisfare contemporaneamente le verifiche di sicurezza alimentare.

In sintesi, la documentazione First Sale in ambito alimentare include contratti, fatture e prove di pagamento come visto in precedenza, ma va coordinata con la documentazione di conformità alimentare. È opportuno che l’importatore lavori a stretto contatto con i propri fornitori italiani e con gli eventuali intermediari per allineare tutti i documenti (ad esempio assicurandosi che le quantità e lotti sulle diverse fatture coincidano, che i certificati sanitari coprano esattamente i lotti venduti nella prima transazione, ecc.). L’errore da evitare è presentare in dogana una fattura “first sale” e poi allegare una documentazione sanitaria o d’origine riferita magari al secondo venditore – ciò farebbe scattare dubbi sulla trasparenza dell’operazione.

Rischi, criticità e limiti (agroalimentare): una sfida peculiare del settore food è la deperibilità e sensibilità della merce. Se l’applicazione della First Sale comporta ritardi o complicazioni nello sdoganamento (ad esempio perché i funzionari vogliono verificare i documenti aggiuntivi), c’è il rischio che prodotti freschi o deperibili subiscano danni o decadimento qualitativo in attesa. Pertanto per prodotti freschissimi (frutta, formaggi freschi, ecc.) alcuni importatori potrebbero preferire una rapida clearance standard piuttosto che un procedimento più complesso, a meno che il guadagno economico sia cospicuo. Un altro limite è dato dai contingenti tariffari (TRQ): per alcuni prodotti come formaggi, zucchero, tabacco, esistono quote di importazione che esaurite le quali il dazio diventa proibitivo (anche oltre 100%). In tali casi, la First Sale riduce il valore dichiarato ma se il dazio è specifico o comunque altissimo, l’impatto percentuale del risparmio potrebbe risultare marginale. Ad esempio, se fuori quota un formaggio pagasse 100% di dazio, ridurre la base del 20% abbassa il dazio pagato da 100 a 80% del prezzo finale – un miglioramento, ma il prodotto resta forse non competitivo. Dunque la strategia funziona meglio entro i limiti quantitativi standard o per prodotti non contingentati.

Un aspetto critico è garantire che la prima vendita sia davvero destinata all’export USA: nel food capita che intermediari comprino prodotti per destinarli a vari mercati globali. Bisogna dunque raccogliere evidenze chiare per gli stock destinati agli USA (ordini d’acquisto con diciture “For US export”, imballaggi con etichette US, etc.). Inoltre, talvolta l’intermediario può aggiungere valore al prodotto (es. stagionatura ulteriore, confezionamento finale, assemblaggio di cesti gourmet): se questo processo altera l’origine o la natura del prodotto, potrebbe complicare l’ammissibilità della First Sale o richiedere di dimostrare che tali lavorazioni non pregiudicano l’originaria destinazione all’export USA. Ad esempio, se un trader acquista forme di parmigiano, le stagiona altri 6 mesi e le taglia/confeziona prima di spedire in America, CBP potrebbe considerare che la vendita rilevante sia quella dopo la stagionatura (l’operazione ha aggiunto valore significativo). Occorre valutare caso per caso.

Un altro rischio: la concorrenza commerciale. Se l’importatore USA è anche distributore verso retail, rivelare il prezzo di prima vendita (es. quello pagato al piccolo produttore) potrebbe metterlo in difficoltà verso i propri clienti (grandi catene) qualora questi venissero a saperlo, magari indirettamente durante un audit CBP. In generale però i dati forniti a CBP sono riservati, quindi questo rischio è limitato, ma psicologicamente alcuni operatori temono la trasparenza dei costi.

Infine, come per ogni settore, permane la necessità di accuratezza e compliance: l’agroalimentare italiano beneficia del valore del marchio, e qualsiasi problema doganale (es. contestazioni di sottofatturazione) può minare la reputazione. È quindi cruciale utilizzare la First Sale solo quando pienamente giustificabile e documentabile. Se ben implementata, per molti esportatori di eccellenze alimentari italiane la First Sale può liberare risorse (dazi risparmiati) da reinvestire in promozione o competitività di prezzo sul mercato americano – un vantaggio non da poco in un settore dove i margini distributivi sono stretti e la concorrenza estera (es. prodotti sudamericani o asiatici a dazio zero) è agguerrita.

Settore Arredo e Design

Il settore arredamento, mobili e design rappresenta un altro pilastro del Made in Italy. Dal punto di vista doganale USA, i prodotti di arredo godono generalmente di dazi MFN molto bassi o nulli. Infatti, la maggior parte dei mobili rientra in voci doganali con aliquote da 0% a 5%. Ad esempio, i mobili in legno per soggiorno o camera (voce 9403) sono spesso tassati allo 0% o allo 0,5% ad valorem; sedie imbottite e mobili per ufficio entrano con dazi dello 0-2,5%; componenti d’arredo vari (lampade, materassi, arredi in metallo) raramente superano il 4%. Ciò significa che il costo dazio incide poco sul prezzo finale di un mobile italiano in USA (soprattutto rispetto a IVA e dazi che colpiscono i mobili importati in UE, spesso ben più onerosi). Conseguentemente, il beneficio assoluto ottenibile con la First Sale in questo settore è inferiore rispetto ad altri comparti: ridurre del 20% la base imponibile quando il dazio è 1% porta a un risparmio di appena 0,2% sul valore merce. Tuttavia, vi sono casi in cui anche pochi punti base contano, specie su arredi di alto valore o su progetti contract di grande entità, e in cui la catena commerciale coinvolge più attori.

Applicabilità pratica: molte aziende italiane dell’arredamento producono in proprio in Italia e vendono tramite distributori o showroom negli Stati Uniti. In tali situazioni classiche (produttore → importatore USA), la First Sale non entra in gioco. Ci sono però alcuni modelli operativi dove un intermediario appare:

  • Produzione conto terzi: alcuni brand di design commissionano la realizzazione di mobili o componenti a terzisti (spesso piccole falegnamerie/artigiani in Italia o Europa dell’Est). Il brand acquista i mobili dal produttore terzo e poi li rivende alle proprie filiali estere. Esempio: un marchio di illuminazione commissiona la fabbricazione di lampade a un’azienda veneta per 100 €, e poi le vende alla sua controllata USA a 150 €. Qui la vendita fabbrica→brand e brand→USA consentirebbe la First Sale (se il brand USA importa direttamente dalla fabbrica italiana con fattura “first sale” a 100 €).
  • Trading company/ufficio acquisti estero: in alcuni casi aziende contract o retailer USA acquistano mobili italiani tramite operatori europei. Ad esempio, una società di procurement UK raccoglie ordini di arredamento da architetti USA e compra i mobili da vari produttori italiani, rivendendoli poi oltreoceano. Anche qui si crea una doppia vendita.
  • Assemblaggi e componenti internazionali: un mobile complesso può vedere componenti prodotti in paesi diversi e assemblati prima dell’esportazione. Se l’assemblatore funge da intermediario che compra pezzi (es. basi in metallo dall’Italia, piani di marmo dalla Grecia) e rivende il mobile completo, la prima vendita (pezzi dal produttore italiano) potrebbe essere valorizzabile separatamente.

Va sottolineato che, data la bassissima tassazione su gran parte dei mobili, la First Sale Rule nel settore arredo viene usata di rado. Tuttavia, negli ultimi anni alcuni importatori hanno iniziato a considerarla per via di due fattori: l’aumento di forniture prodotte fuori dall’Italia (es. parti in Asia) e la ricerca di ogni efficienza possibile su progetti a margine ridotto. Un elemento da non trascurare è che se un mobile italiano contiene componenti o materiali provenienti da paesi con dazi aggiuntivi (es. acciaio o alluminio soggetti a dazi Section 232, o componenti cinesi soggetti a dazio 301 al 25%), abbassare il valore dichiarato di quei componenti tramite First Sale può generare risparmi indiretti anche su quei dazi speciali. Ad esempio, un’azienda italiana di cucine che importa cerniere o parti metalliche dalla Cina a 100 € e le rivende alla filiale USA integrate nella cucina a 130 €, potrebbe, dichiarando il costo iniziale di 100 €, ridurre l’impatto sia del dazio normale (diciamo 0-2%) sia del dazio 25% Section 301 sulle parti cinesi (che verrebbe calcolato sul valore 100 invece che 130). Dunque, sebbene la tariffa mobili di per sé sia bassa, la First Sale può contribuire a mitigare costi tariffari esterni incorporati nel prodotto.

Esempio numerico: consideriamo un set di mobili design (un tavolo + 4 sedie) venduto dal produttore italiano a un mediatore europeo a 5.000 €, e rivenduto all’importatore USA (che allestirà un negozio) a 6.000 €. Supponiamo un dazio del 1% per quella tipologia (mobili in legno). Senza First Sale, il dazio all’import sarebbe 60 € a set; con First Sale (dazio calcolato su 5.000 €) scende a 50 €, con 10 € di risparmio per set (0,17% del valore). Su una spedizione di 100 set, si risparmierebbero 1.000 €. Non cifre enormi, ma in progetti contract o forniture di arredi per grandi spazi anche pochi punti percentuali possono fare la differenza su margini stretti. Se invece il dazio è 0% (caso comune per molti mobili), ovviamente la First Sale non porta beneficio immediato – anche se, come detto, può ridurre eventuali altre fee proporzionali come le Merchandise Processing Fee (0,3464% ad importazione, sebbene con tetto massimo) e dà un minimo vantaggio su di esse.

Procedure e documentazione (arredo): l’iter con CBP non presenta differenze sostanziali: occorre sempre dichiarare correttamente la First Sale all’atto dell’import ed esibire contratti, fatture e pagamenti delle transazioni coinvolte. In questo settore però entrano in gioco alcuni documenti specifici di conformità: ad esempio, molti mobili contengono legno o derivati del legno, e quindi sono soggetti al Lacey Act (obbligo di dichiarare specie e provenienza del legno importato). Un importatore che applichi la First Sale dovrà assicurarsi che le dichiarazioni Lacey Act combacino con il fornitore reale (primo venditore) e la specie legnosa originaria. Ciò significa, ad esempio, che se il primo produttore fornisce al trader europeo legno di quercia croata, la dichiarazione dovrà indicare quercia croata e il produttore. Fortunatamente, ciò non confligge con la First Sale, anzi la rafforza, perché dimostra trasparenza sull’origine materiale. Allo stesso modo, vanno rispettati eventuali requisiti di sicurezza: mobili imbottiti devono rispettare standard di infiammabilità (es. TB117-2013 in California) – l’importatore deve raccogliere i certificati dal produttore originario e può includerli nel pacchetto documentale.

Un altro aspetto è che il settore arredo rientra tra quelli seguiti da specifici Centers of Excellence and Expertise (CEE)di CBP (il Furniture, Appliances & Industrial Machinery CEE) che centralizza le competenze doganali su questi prodotti. Questo significa che, se un importatore di mobili usa la First Sale, probabilmente la sua pratica sarà vagliata da funzionari specializzati nel settore, che conoscono bene le dinamiche di pricing dei mobili. È dunque essenziale che i valori dichiarati siano ragionevoli e ben supportati: il CEE confronterà i valori per pezzo, materiale, ecc., con il background di mercato. Ad esempio, presentare un valore first sale “troppo basso” per un mobile di design noto potrebbe sollevare red flags. In generale però, essendo i margini del settore noti come alti, non è inusuale che un distributore applichi 50-100% di markup. Se dunque un brand vendesse a 10.000 € un pezzo che costa 5.000 al produttore, CBP potrebbe comunque accettare 5.000 come valore imponibile se tutti i requisiti sono soddisfatti.

Rischi e limiti (arredo): la principale considerazione è il rapporto costi/benefici. Implementare la First Sale comporta costi fissi (amministrativi, legali) che possono essere scarsamente giustificati se il risparmio daziario è nell’ordine dell’1% o meno. Molte aziende del mobile preferiscono investire tali risorse in servizi al cliente o marketing, anziché in ottimizzazioni doganali di modesta entità. Pertanto, la First Sale nell’arredo ha senso soprattutto in situazioni in cui: (1) i volumi o i valori sono estremamente alti (es. forniture di hotel interi, navi da crociera – dove anche risparmi minimali diventano somme consistenti), oppure (2) quando i mobili hanno componenti soggetti a dazi speciali o elevati (come citato, elementi in metallo o vetro provenienti da paesi con dazi aggiuntivi). In questi casi combinati, la procedura può recuperare qualche punto percentuale in più.

Un altro limite: molte imprese di design italiane puntano sul valore del brand e sull’esclusività. Divulgare i costi di produzione potrebbe non essere ben visto internamente. Anche se CBP mantiene il segreto su tali dati, l’azienda stessa deve avere un certo grado di trasparenza interna. Inoltre alcune non vogliono “svelare” ai propri importatori o rivenditori quanto pagano i fornitori terzi. Ad esempio, se l’azienda X affida la produzione di una sedia a un artigiano brianzolo a 500 €, e poi la rivende a 1000 € al distributore USA, quest’ultimo per applicare la First Sale verrebbe a conoscenza del prezzo di 500 €. Ciò potrebbe generare tensioni commerciali (il distributore potrebbe tentare in futuro di rivolgersi direttamente al produttore per spuntare prezzi migliori, bypassando il brand). Per questo motivo, nel settore arredamento la First Sale viene spesso adottata quando l’importatore è una filiale di proprietà del produttore, così non vi sono parti terze a cui rivelare informazioni, oppure quando c’è un accordo molto solido tra brand e distributore esclusivo.

Dal lato doganale, i rischi di compliance sono più bassi che altrove (data la minore attenzione storica su questo settore, considerato non “sensibile” in termini di frodi), ma non assenti. Occorre evitare qualunque artificio nella strutturazione delle vendite. Ad esempio, non si deve creare un finto venditore intermediario solo per abbassare il valore (CBP lo smaschererebbe facilmente chiedendo i documenti e verificando l’effettiva sostanza economica della transazione). Inoltre, se il produttore e l’intermediario sono società collegate (cosa possibile: alcuni gruppi hanno trading house controllate), bisogna superare il test del valore normale – ossia dimostrare che il prezzo intercompany riflette valori di mercato (si può fare confrontando con vendite a terzi similari o mostrando che copre costi+utile ragionevole). Questo aggiunge un livello di analisi (simile al transfer pricing) da condurre con cura.

In conclusione, la First Sale Rule nel settore arredo è meno diffusa ma comunque applicabile in specifici contesti. I risparmi medi percentuali sono piccoli (in genere <2%), ma su forniture di alto valore possono tradursi in migliaia di euro. Il consiglio per le aziende di mobili/design è di valutare questa opzione specialmente se stanno delocalizzando parte della produzione (es. componenti in Asia) o se operano tramite hub di distribuzione fuori dall’Italia. In tali casi, la collaborazione col proprio importatore USA e con consulenti doganali può portare all’implementazione di programmi First Sale “chiavi in mano” senza intoppi, sfruttando anche la bassa rischiosità del settore. Esempi di successo internazionale includono produttori di componentistica di arredo (maniglie, ferramenta) che, avendo stabilimenti in Cina/Vietnam, importano in USA valorizzando la prima vendita per mitigare il 25% addizionale, e alcune grandi catene di arredamento che centralizzano gli acquisti UE e sono riuscite a ridurre leggermente il costo di importazione in USA – vantaggio importante dato l’alto volume di merce movimentata.

Settore Cosmetica e Cura della Persona

Il settore cosmetico e della cura personale (make-up, skincare, profumi, prodotti per capelli, ecc.) è un comparto in cui l’Italia svolge un ruolo notevole sia come produttore conto terzi per grandi marchi globali, sia con propri brand emergenti. Dal punto di vista dei dazi USA, i cosmetici rientrano perlopiù tra i prodotti industriali a dazio ridotto: molti articoli di bellezza entrano in franchigia doganale o con tariffe simboliche. Ad esempio, rossetti, lucidalabbra, ombretti e trucco occhi rientrano nella voce 3304 HTS e attualmente non pagano dazio all’import in US (aliquota 0%. Anche le creme per la pelle e i cosmetici per il viso sono generalmente duty-free. I prodotti per capelli (shampoo, coloranti) e i profumi invece hanno aliquote basse ma non nulle: tipicamente 2,5% o 5%. In particolare, i profumi e le acque da toeletta contenenti alcool sono soggetti a un dazio del 5% ad valorem, oltre a una tassa federale sugli alcoli (circa $13,50 per gallone). Quindi, il dazio medio in questo settore potremmo stimarlo sotto il 2%. Ciò implica che l’eventuale risparmio ottenibile con la First Sale è in genere molto contenuto in termini percentuali. Tuttavia, il settore cosmetico presenta alcune filiere multi-tier: basti pensare ai grandi marchi del lusso francese che fanno produrre make-up in Italia e poi importano negli USA, oppure ai brand italiani che vendono tramite distributori USA. Inoltre, i volumi di esportazione possono essere alti e i margini unitari per prodotto a volte bassi (soprattutto per cosmetica “masstige” o private label). In questi casi, anche limare uno o due punti percentuali sul costo può essere interessante.

Applicazione pratica della First Sale: immaginiamo una filiera tipica: un produttore cosmetico italiano (spesso un terzista) realizza un lotto di rossetti per conto di un marchio estero (che può essere francese, americano o anche italiano stesso). Il marchio acquista i rossetti dal terzista a un certo prezzo e li rivende al suo distributore/importatore USA a prezzo maggiorato. Questa è esattamente la situazione in cui la First Sale può essere sfruttata: l’importatore USA (che spesso coincide col brand stesso o con una sua filiale) dichiara il costo di primo livello, ossia quello fatturato dal terzista italiano. Ad esempio, se il produttore italiano vende mascara a 3 € al pezzo al brand, e il brand li cede alla sua entità USA a 5 € ciascuno, il dazio (poniamo 0%, quindi trascurabile in questo caso) verrebbe comunque calcolato su 3 € se First Sale, riducendo anche le fee proporzionali (come la MPF). In un caso più oneroso, consideriamo un profumo: un’azienda italiana fornisce fragranze all’azienda X a 10 € a flacone, e X (francese) le rivende alla sua filiale USA a 20 €; il dazio 5% passerebbe da 1,00 € a 0,50 € a pezzo, risparmiando 0,50 €. Su 100.000 flaconi esportati annualmente, sono 50.000 € risparmiati – non male per coprire magari spese di marketing. Dunque, quando c’è un terzista o un intermediario in mezzo, la First Sale è fattibile anche per cosmetici.

Va detto che molte importazioni di cosmetici negli USA avvengono in maniera diretta: es. il brand italiano spedisce al distributore USA con una sola transazione, oppure il brand ha direttamente un’entità produttiva propria e poi una commerciale in USA (in tal caso non c’è “prima vendita” separata se produzione in-house). Ma nel contesto attuale, dove la produzione conto terzi è molto diffusa (l’Italia è uno dei leader mondiali nell’OEM cosmetico), i margini per implementare la First Sale ci sono.

Esempi settoriali: un caso di scuola è quello dei prodotti skincare di lusso: spesso formulati e confezionati in Italia da aziende specializzate, poi venduti ai marchi proprietari a un costo e rivenduti sul mercato USA a prezzi molto più alti. Se un brand di alta gamma acquista una crema anti-età da un laboratorio milanese a 8 € a pezzo e la rivende alla sua divisione USA a 20 €, potrebbe dichiarare 8 € come valore (previa approvazione First Sale), pagando ad esempio 0 € di dazio (creme viso duty-free) invece di 0 € (nessuna differenza, se è free – in questo caso non cambia nulla, se non per MPF minima). Ma consideriamo un brand di fascia media che fa produrre smalti e mascara in Italia: li compra a 2 € cad e li vende a 3 € al proprio importatore/distributore USA. La tariffa US per questi cosmetici è 0%, quindi formalmente non risparmia dazio; tuttavia dichiarare un valore inferiore riduce di poco la fee di processing (MPF) – un vantaggio minuscolo ma comunque presente sulle spedizioni frequenti. Inoltre, potrebbe abbassare eventuali dazi Section 301 se ad esempio qualche componente (packaging, ingredienti) provenisse dalla Cina con costi incorporati.

Un altro esempio interessante: i prodotti cosmetici spesso vengono importati in kit o set regalo (es. trousse con vari articoli) che CBP talvolta riclassifica in base all’elemento principale. La First Sale qui agirebbe su ogni componente. Ad esempio, un set trucco con astuccio + cosmetici: l’astuccio viene dalla Cina, i cosmetici dall’Italia; un intermediario assembla il set in Italia e vende al retailer USA. Dichiarando i valori primi (astuccio a costo Cina, cosmetici a costo Italia), si separa la base su cui si applica il 25% Section301 sull’astuccio (Cina) e 0% su cosmetici, evitando di pagare margini su quei costi. È complesso ma fattibile.

Procedure e documentazione (cosmetica): come sempre, servono prove solide di ogni transazione. Nel caso cosmetici, spesso il produttore e il marchio hanno contratti di fornitura: questi contratti sono preziosi da esibire, perché mostrano il prezzo convenuto e magari la destinazione (il terzista sa che il lotto sarà esportato in USA con marchio X, potendo includere requisiti specifici per FDA). La documentazione richiesta da CBP – fatture, pagamenti, ordini – è standard. In più, qui entra in gioco potentemente la regolamentazione FDA: i cosmetici importati sono soggetti al Federal Food, Drug & Cosmetic Act. La dogana spesso collabora con FDA nel trattenere prodotti non conformi (es. con ingredienti vietati o etichette non a norma). Pertanto, per convincere CBP che la merce era “destinata agli USA”, l’importatore può mostrare che già all’origine erano rispettati i requisiti FDA. Ad esempio, presentare le bozze di etichetta approvate, con ingredienti in inglese, peso netto in once e grammi, nome e indirizzo del responsabile USA (richiesto per legge sui cosmetici) può essere determinante. Una citazione utile: in un ruling doganale su un profumo si sottolinea che “This product is subject to the regulations of the Food and Drug Administration”– a ricordare che i documenti devono soddisfare anche quell’ente. Perciò, in pratica, l’importatore dovrebbe raccogliere:

  • Il certificate of analysis e ingredient list del produttore, per dimostrare conformità (e allegarlo se richiesto da FDA);
  • L’etichetta finale che verrà applicata (spesso i terzisti producono con etichette neutre o internazionali, poi il brand etichetta per regione – se l’etichettatura USA è fatta in Italia prima della spedizione, ancora meglio, perché indica destinazione USA);
  • Ogni eventuale avviso o certificazione (ad es. se il prodotto contiene colori soggetti a certificazione FDA, le prove di certificazione).

Dal punto di vista CBP, queste evidenze rafforzano la condizione “sale for export to the US” soddisfatta. Inoltre, l’importatore deve apporre nel sistema l’indicazione First Sale in entry e tenere a disposizione tutti i record per 5 anni (come da obblighi di recordkeeping). Può essere utile coinvolgere il broker doganale in anticipo, spiegando la struttura first sale, affinché compili correttamente la voce statistica e l’indicatore di utilizzo della regola.

Rischi e criticità (cosmetica): anche qui, il gioco vale la candela? Spesso no, se guardiamo solo al dazio. Molti importatori di cosmetici preferiscono la via semplice (dichiarare l’ultimo prezzo) dato che tanto il dazio è zero o irrisorio. La First Sale in questo settore può avere più che altro un valore strategico per alcuni attori: ad esempio, distributori di profumi di lusso potrebbero ridurre leggermente il costo di import per investire di più in marketing, oppure importatori di cosmetici a basso margine (es. prodotti per grande distribuzione) potrebbero usare ogni piccolo risparmio per competere sui prezzi.

Il rischio principale è legato alla conformità FDA: qualora l’importatore si concentri sullo schema First Sale ma trascuri di assicurare pienamente compliance normativa, potrebbe incorrere in sequestri o rifiuti da parte di FDA (che hanno priorità assoluta, essendo merce potenzialmente per la salute). Ad esempio, se un lotto arriva e FDA riscontra etichette non a norma o ingredienti proibiti, verrà bloccato indipendentemente dal valore doganale dichiarato – vanificando ogni sforzo. Perciò l’azienda deve avere un robusto sistema qualità/regolatorio parallelo a quello doganale.

Un altro punto: i cosmetici, come i farmaci da banco, subiscono a volte riclassificazioni doganali complesse (es. un prodotto borderline può essere classificato come medicinale se contiene principi attivi). Questo può alterare le aliquote. La First Sale va quindi coordinata con l’assicurazione di classificare correttamente la merce. Un errore di classificazione potrebbe portare a un dazio imprevisto e annullare i benefici del primo sale.

Dal punto di vista relazionale, come per l’arredo, le politiche di prezzo sono delicate. Se il distributore USA non è affiliato, scoprire il costo reale di produzione potrebbe spingerlo a negoziare prezzi più bassi o cambiare fornitore. Ma spesso nei cosmetici il distributore è il brand stesso (es. filiale) o ha contratti blindati. C’è anche da dire che molte grandi case cosmetiche hanno già proprie strutture ottimizzate (es. zone franche o magazzini doganali) e possono preferire altre strategie (es. duty drawback su re-export, data la quota di resi o invenduti).

In definitiva, la First Sale nel beauty è fattibile ma di nicchia. Uno scenario ideale è quello di un produttore conto terzi italiano che convince il brand committente ad applicarla: entrambi potrebbero trarne beneficio (il brand riduce i costi import e forse aumenta i volumi di ordine al terzista). Dal lato normativo, non vi sono ostacoli se i requisiti generali sono rispettati. Ad oggi, dati pubblici specifici sull’adozione in cosmetica non sono disponibili, ma per analogia con settori simili (farmaceutica ha dazi bassi e raramente impiega First Sale) si presume un utilizzo modesto. Ciò non toglie che un’azienda italiana emergente, per entrare sul mercato USA con prezzi aggressivi, potrebbe strutturarsi fin da subito usando un importatore/distributore “fantoccio” (nel senso di entità controllata) per dichiarare la prima vendita e risparmiare quel poco di dazio ed MPF, massimizzando ogni risorsa.

Rischi settoriali riassunti: low duty – low reward (dazio basso, beneficio basso) e necessità di altissima compliance con FDA. Ma rischio sanzioni doganali specifiche minimo se tutto è genuino. Da segnalare che eventuali campaign di controllo su prodotti cosmetici falsificati o non sicuri potrebbero aumentare la vigilanza CBP/FDA su questi import; presentare fatture first sale con valori molto bassi potrebbe destare sospetti di sottofatturazione finalizzata a introdurre prodotti magari contraffatti o non conformi. Quindi le aziende serie devono dissociarsi da pratiche illecite e, al contrario, usare la trasparenza First Sale come prova di onestà (mostrano l’effettivo costo industriale, senza gonfiare).

Raccomandazioni Operative e Conclusioni

L’analisi condotta sui quattro settori evidenzia che la First Sale Rule può rappresentare un vantaggio competitivo concreto per le aziende italiane esportatrici, a patto di operare nel rispetto rigoroso delle regole e con un’attenta valutazione caso per caso. Di seguito alcune linee guida pratiche e raccomandazioni generali per implementare con successo questa strategia:

  • Valutare l’idoneità della propria filiera: per prima cosa, un’azienda dovrebbe mappare la propria catena di vendita verso gli USA. Ci sono intermediari o vendite multiple prima dell’importazione finale? Quali sono i dazi applicati sui propri prodotti (consultando il Harmonized Tariff Schedule USA )? Se i dazi sono elevati (es. oltre 5%) e c’è almeno un passaggio di vendita intermedio, vale la pena approfondire. Al contrario, se si vende direttamente o i dazi sono zero, la First Sale potrebbe non dare benefici. Nei casi borderline (dazi bassi ma volumi alti), può essere utile fare un piccolo studio di fattibilità quantitativo: calcolare potenziali risparmi annui vs costi di implementazione.
  • Coinvolgere partner e intermediari: la riuscita del programma richiede la collaborazione di tutti gli attori della supply chain. È consigliabile avviare discussioni con i propri fornitori (o clienti, se l’azienda italiana è quella “di mezzo”) per spiegare il meccanismo e ottenere disponibilità a condividere documenti e informazioni sensibili. Spesso, accordi di non divulgazione e trasparenza possono rassicurare le parti. In alcuni casi, potrebbe essere opportuno formalizzare la cooperazione inserendo clausole contrattuali che obbligano il fornitore a fornire fatture dettagliate, copie dei pagamenti e conferma della destinazione export USA. Se qualche partner si oppone fermamente a rivelare i propri prezzi, la First Sale potrebbe non essere praticabile per quella linea di prodotti – o si valuta di cambiare partner con uno più collaborativo.
  • Consulenza doganale specializzata: data la complessità normativa, è altamente raccomandato coinvolgere un esperto di trade compliance o uno studio legale specializzato in dogane internazionali. Questi consulenti possono effettuare un audit iniziale (verificando requisiti di bona fide sale e export), aiutare a strutturare correttamente le transazioni e predisporre la documentazione secondo le linee guida CBP. Inoltre, possono interfacciarsi con le autorità in caso di dubbi. Ad esempio, potrebbero richiedere un binding ruling preventivo al CBP per confermare che in una certa configurazione la First Sale è accettata. Investire in consulenza riduce drasticamente il rischio di errori costosi e sanzioni.
  • Organizzazione documentale e IT: l’azienda deve predisporre un sistema per tracciare e archiviare tutti i documenti rilevanti. Idealmente, implementare un workflow digitale dove ogni spedizione con First Sale abbia associati: contratto, fattura primo livello, fattura secondo livello, prove di pagamento, documenti di trasporto, certificati, ecc. Tutto va conservato per almeno 5 anni (periodo in cui CBP può effettuare audit post-sdoganamento). Molte aziende integrano queste esigenze nel proprio ERP o gestionali di trade compliance. Alcuni studi offrono portali web sicuri per caricare i documenti (come menzionato da ST&R, piattaforma online per clienti First Sale). Questo aiuta anche a standardizzare il processo, soprattutto se si hanno molti fornitori e prodotti.
  • Dichiarazione e comunicazione con CBP: assicurarsi che il proprio customs broker o reparto import indichi correttamente la First Sale al momento della compilazione dell’Entry Summary (modulo 7501 elettronico). Dal 2018 circa, CBP richiede di valorizzare un campo specifico (“First Sale Declaration”) per segnalare tali operazioni  La mancanza di tale dichiarazione può comportare problemi (ad es. l’azienda perderebbe la possibilità di difendersi poi sostenendo che aveva diritto, se non l’ha dichiarato inizialmente). Inoltre, è prudente preparare un pack informativo per CBP da presentare spontaneamente o su richiesta durante lo sdoganamento, soprattutto per le prime spedizioni First Sale: includere una cover letter che spiega che si sta avvalendo della First Sale Rule per quella importazione, con allegata una sintesi dei documenti probatori. Ciò può facilitare l’accettazione ed evitare che i funzionari debbano indagare a fondo.
  • Allineamento con normative settoriali: come discusso, settori come alimentare e cosmetico richiedono di sincronizzare la First Sale con requisiti FDA/USDA. Le aziende dovrebbero redigere delle checklist settoriali. Ad esempio, un esportatore alimentare avrà una checklist: “FDA Prior Notice inviato? FSVP ok? Documenti sanitari allegati? Etichette conformi? Ok, allora pacchetto First Sale documenti completato”. Un’azienda di moda controllerà: “etichette cucite con Made in X? Dichiarazioni di origine tessile ottenute? Ok”. Questo approccio integrato eviterà che un aspetto doganale vanifichi un aspetto regolatorio o viceversa.
  • Training interno: formare il personale delle divisioni logistica, export, amministrazione sui principi della First Sale Rule. Tutti devono capire perché si richiedono certi documenti ai fornitori e come vanno gestiti. È utile predisporre procedure scritte interne (SOP) per l’implementazione. Anche i partner esteri possono beneficiare di briefing formativi – ad esempio, spiegare al piccolo fornitore artigiano l’importanza di fatturare correttamente e che questo non è un controllo fiscale su di lui, ma un adempimento doganale internazionale.
  • Monitorare e mantenere la compliance: una volta avviato il programma, è bene monitorarne l’andamento. Tenere un registro dei risparmi ottenuti (per valutare ROI), ma anche essere pronti a interazioni con CBP: possibili richieste di approfondimento o audit formali (Focused Assessment). In caso di audit, fornire con puntualità quanto richiesto. Inoltre, restare aggiornati su eventuali cambi normativi: se un domani (ipotesi remota ma da non escludere) il Congresso o l’OMC dovessero spingere gli USA ad abolire la First Sale (come fatto in UE dal 2016), l’azienda dovrà adattarsi. Attualmente, CBP sembra mantenere l’opzione e anzi ne monitora solo l’uso tramite la dichiarazione obbligatoria – segno che first sale is here to stay, ma la vigilanza è d’obbligo.

Comparazione settoriale dei vantaggi: si fornisce una tabella riepilogativa dell’impatto medio della First Sale nei quattro settori analizzati, tenendo conto di dazi medi e strutture tipiche:

SettoreDazi USA tipici (MFN)Esempio valore (€/unità)Dazio senza First SaleDazio con First SaleRisparmio stimato
ModaElevati (abbigliamento 12-20%, calzature 8-30%+)Camicia cotone uomo: Produttore→Brand 8 €, Brand→USA 10 € (dazio 16%)1,60 €1,28 €20% in meno (≃ €0,32)
AgroalimentareMedi (cibo 5-10%, bevande alcoliche specifici)Pasta (non uovo): Produttore→Trader 0,90 €/kg, Trader→USA 1 €/kg (dazio 6,4%)0,064 €/kg0,0576 €/kg10% in meno (≃ €0,0064/kg)
ArredoBassi (mobili legno 0-1%, metallo 0-4%)Sedia legno: Produttore→Brand 50 €, Brand→USA 60 € (dazio 1%)0,60 €0,50 €17% in meno (≃ €0,10)
CosmeticaMolto bassi/nulli (make-up 0%, profumi 5%)Profumo: Produttore→Brand 10 €, Brand→USA 20 € (dazio 5%)1,00 €0,50 €50% in meno (≃ €0,50)

(Legenda: valori indicativi e ipotetici a scopo illustrativo. Il risparmio % è riferito al dazio, non al valore merce.)

Come si nota, moda e cosmetica possono avere percentuali di risparmio sul dazio elevate in termini relativi (perché i ricarichi sono ampi), ma l’effetto assoluto dipende dal dazio: nel cosmetico, ad esempio, ridurre il dazio del 50% può tradursi in pochi centesimi se il dazio è 5%. Nel food il margine percentuale è modesto poiché i ricarichi commerciali tendono ad essere più bassi e c’è meno “spread” di valore. Nel mobile, i dazi già minimi fanno sì che ogni vantaggio sia misurato in decimali di euro. Questi numeri servono a guidare le imprese nella decisione: dove il gioco non vale la candela (es. settori a dazio zero) forse meglio concentrare altrove gli sforzi; dove invece c’è opportunità (es. fashion), la First Sale dovrebbe entrare nel toolkit di ogni export manager.

Conclusione: la First Sale Rule si conferma uno strumento potente ma da maneggiare con cura. L’export italiano verso gli USA è un motore importante (oltre 60 miliardi di € annui), e i dazi, pur mediamente non proibitivi, rappresentano un costo aggiuntivo su cui le aziende possono intervenire strategicamente. In particolare, nei segmenti moda e lusso, dove il Made in Italy subisce la concorrenza di produzioni a basso costo gravate dagli stessi dazi, riuscire a ottimizzare l’esborso doganale può aiutare a mantenere la competitività dei prodotti italiani senza intaccarne il posizionamento premium. Analogamente, per l’agroalimentare di qualità, ogni punto percentuale risparmiato può essere reinvestito in promozione sul mercato USA o in politiche di prezzo più aggressive per conquistare spazio sugli scaffali.

Le aziende che hanno adottato con successo la First Sale evidenziano l’importanza di un approccio multidisciplinare: coinvolgere uffici legali, fiscali, commerciali e partner esteri in un progetto comune di ottimizzazione doganale. Spesso l’ostacolo maggiore è psicologico o organizzativo – “si è sempre fatto così” – ma superarlo può portare benefici continuativi nel tempo. Va ricordato infatti che il vantaggio della First Sale non è one-shot ma ricorrente: una volta impostata la struttura, ogni spedizione futura ne usufruirà, generando un flusso di risparmio cumulativo.

Infine, un richiamo alla compliance etica: la First Sale Rule, se applicata correttamente, è del tutto legale e prevista dalla normativa USA. Non va confusa con pratiche illecite di sottofatturazione. In un’epoca di attenzione alla trasparenza nelle catene di fornitura, utilizzare questa regola può persino testimoniare la volontà dell’azienda di operare in modo limpido, fornendo a CBP piena visibilità su costi e attori coinvolti. L’importante è non abusarne e non considerarla un “trucco” ma una ottimizzazione legittima concessa dal sistema.

Le istituzioni americane hanno ribadito il proprio impegno a mantenere la First Sale come opzione – come dimostrato dal fatto che nel 2008 il Congresso ne ha sancito l’uso continuato malgrado le resistenze – ma al contempo richiedono rigore: ogni falsa dichiarazione o uso improprio sarà sanzionato severamente (come il caso della multa da 1,3 milioni di $ citato)

Dunque, la raccomandazione finale alle aziende italiane è: “Se rientri tra quelle che possono beneficiarne, cogli l’opportunità della First Sale Rule, ma fallo con preparazione, accuratezza e trasparenza”. In questo modo, potrai ridurre i costi di sbarco dei tuoi prodotti negli Stati Uniti, rafforzando la tua presenza in quel mercato e continuando a far brillare il valore del Made in Italy oltreoceano.

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